Nella Milano del Rinascimento, al Policlinico Ospedale Maggiore, già lavorava il primo medico legale al mondo.
Lo hanno scoperto i ricercatori dello stesso ospedale, che nel marzo scorso avevano iniziato a studiare il Sepolcreto del Policlinico che si è rivelato una vera e propria necropoli milanese, nella quale giacciono i resti di oltre 500 mila milanesi che sono vissuti tra il 1473 e il 1695.
Tra loro anche il primo morto di peste del Seicento, quella raccontata da Manzoni nei Promessi Sposi.
Il capostipite dei medici legali era chiamato «catelano»: «La sua funzione era soprattutto sanitaria – spiega Cristina Cattaneo (direttore del Laboratorio di antropologia forense di Milano),– era un vero e proprio medico che registrava la causa di morte per i decessi, e non solo per quelle sospette» come accadeva per i primi coroner inglesi, che non erano nemmeno medici. Credo che il primo medico legale venga proprio da qui, e il suo è un lavoro molto più dettagliato di quello che veniva fatto in Inghilterra anche se poi bisognerà vedere se effettivamente c’era una segnalazione particolare che veniva fatta all’autorità giudiziaria».
In ogni caso, spiega Francesca Vaglienti (docente di storia medievale dell’Università degli Studi di Milano), «per tutto quanto riguarda le morti traumatiche l’intervento del catelano, e cioè del medico ducale preposto a questi accertamenti, era preponderante: si arriva all’84% di interventi sul totale. Se i segni del decesso erano immediatamente visibili non c’era bisogno del catelano, ma bastava l’anziano della parrocchia o il singolo cittadino».
In pratica, il coroner inglese era una persona «che riferiva alla pubblica autorità i casi di morte sospetta, a partire dal 1200 circa; invece il catelano è circa del 1438, ed è un vero e proprio medico incaricato di accertare le cause di decesso. Il nome, deriverebbe molto probabilmente dalla veste che indossava a scopo profilattico; non era un camice ma un vero vestimento che doveva proteggerlo. Ed è stato anche efficace, visto che è sopravvissuto a due epidemie di peste, non di piccole proporzioni». Le prime, parziali analisi sulle ossa del Sepolcreto hanno inoltre permesso di scoprire altri dati sorprendenti: ad esempio, che già all’epoca diverse persone morivano per malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide o l’artrite da psoriasi, così come da avvelenamento da piombo: questo tossico elemento era presente in grandi quantità nel peltro, usato ad esempio per i bicchieri, ma «imbottiva» anche i cosmetici dell’epoca, che sia le prostitute sia gli attori di teatro usavano in grandi quantità.
Infine, una curiosità: tra i resti del Sepolcreto c’è anche un nano. Addirittura, in un antico quadro affisso nell’ospedale dice Vaglienti «che riproduce il cortile dell’Ospedale Maggiore alla fine del ‘600, è rappresentato un nano armonico (piccolo di statura ma proporzionato) perfettamente vestito che faceva la questua all’interno del cortile». Nonostante i dettagliatissimi registri che i medici dell’epoca hanno lasciato, non è ancora stato possibile attribuirgli un nome; ma quel che è certo è che «per salvaguardare la sua dignità è stato sottratto a una vita da guitto, da "cagnolino da compagnia", come questo tipo di persone era considerato nel Rinascimento».
Senza fondi, denunciano però gli scienziati dell’ateneo di via Festa del Perdono, rischiano di restare insoluti tutti i misteri racchiusi nei resti ammonticchiati dal 1473 al 1695 nei sepolcri dell’Irccs Policlinico. «Il minimo che chiediamo è poter disporre di due persone da dedicare completamente al progetto, uno storico e un antropologo che possano lavorarci 12 ore al giorno almeno per i prossimi 4 anni», afferma Cattaneo. Si tratterebbe di «due assegni di ricerca di due anni, un investimento di circa 100 mila euro», calcola Cattaneo. Molto per un’università pubblica, ancor più in tempi di crisi, tagli e risorse razionate, ma poco per qualunque grande privato «mecenate» riflettono gli studiosi. Da qui la provocazione: «Adottate un milanese del Rinascimento, siamo pronti a darvi un attestato», dice Vagliente. Non è ancora una campagna vera e propria, puntualizza, ma una richiesta d’aiuto che potrà diventare appello alla popolazione «laddove non ci fossero risposte da parte delle istituzioni, pubbliche o private che siano», precisa la storica.
Fonte Corriere.it